Genovese

Se pensate che a Napoli la pizza sia una cosa seria beh, non avete ancora sentito parlare della pasta. Facciamo un passo indietro nella storia della pasta secca in Italia: portata dagli Arabi in Sicilia, il suo uso si diffonde dapprima come contorno (e voi che inorridite davanti a certe tavole tedesche) e più tardi come piatto unico, specialmente tra i ceti più poveri. Gli storici della cucina Alberto Capatti e Massimo Montanari ci dicono che “La pasta rimase per lungo tempo un cibo tra i tanti. Ancora nel XVI secolo poteva essere avvertita come uno sfizio, una ‘delicatezza’ di cui si poteva fare a meno nei tempi di difficoltà”. L’entusiasmo tutto italiano per la pasta nasce proprio a Napoli, dove dal Seicento diventa il piatto di elezione del popolo che inizia a cibarsene quando il prezzo della farina scende e quello della carne va alle stelle. Il resto è storia, incisa sui cucchiai di legno napoletani da innumerevoli mescolate di sugo.

Il primo che vi raccontiamo è la genovese o genoesa in dialetto: su una base di carote, sedano e cipolle si fa soffriggere la carne, muscolo e spezzatino di manzo. Si aggiunge vino rosso, almeno un chilo e mezzo di cipolle, un bicchierino d’acqua e si fa cuocere a fiamma bassa per almeno cinque o sei ore. Unite alle candele spezzate, un formato di pasta liscio e cilindrico, e favorite.

Cuoppo di mare

Napoli, insieme a Palermo, è meta imperdibile per il cibo da strada italiano. Meno male perché, se volete perdervi tra le stradine del centro, almeno fatelo con la pancia piena. Il cuoppo nasce proprio per questo: di nome significa cono, di fatto è la quintessenza del fritto nel cartoccio – quest’ultimo in “carta di paglia”, tradizionalmente ricavato dalla macerazione delle fibre vegetali. Le varianti locali sono tante, e in giro troverete cuoppi di terra (con verdure pastellate, mozzarelline e polenta fritte) e cuoppi dolci, soprattutto a base di mini zeppole. Tuttavia Napoli fra tante cose è soprattutto un porto, e per questo motivo ci sembra doveroso consigliarvi più degli altri il cuoppo di mare.

Il cono ripieno di totani, alici, gamberi, seppioline e tutto il corredo di pescato povero del giorno è una delle specialità più tradizionali della città. Ne “Il Ventre di Napoli” (1884) Matilde Serao lo descrive così: “Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano ‘fragaglia’ e che sono il fondo dei panieri dei pescivendoli”, e si possono avere per “un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici”. Un fritto povero ma delizioso, da alleggerire giusto con una spruzzata di limone e una spolverata di pepe.

Pizza napoletana

Andare a Napoli per mangiare la vera pizza napoletana (Patrimonio culturale immateriale Unesco dal 2017) è un vero e proprio pellegrinaggio, con tanto di chiese e adepti. Non potrebbe essere altrimenti visto che la preparazione come Dio comanda nel forno di casa non si può fare, e mettiamoci pure che, proprio perché i napoletani la maestria della pizza ce l’hanno nel dna, qui è invariabilmente più buona che altrove. Comunque se ne parli (e noi a Dissapore ne abbiamo parlato parecchio) la pizza napoletana a Napoli sfonda l’ovvio come una porta aperta e lo calpesta pure. Per questo motivo oggi vogliamo procedere per via semantica, e raccontarvi piuttosto delle altre ricette tipiche che prendono il nome di “pizza” ma non sono propriamente quella cosa lì.

Iniziamo dallo street food con la pizza fritta, retaggio del dopoguerra fatto di povertà e mancanza di forno a legna. L’impasto è richiuso su se stesso a forma di piscitello, battilocchio o mezzaluna, ripieno di quello che volete e fritto in olio bollente. A Pasqua c’è la pizza chiena, una frolla ripiena di ricotta, prosciutto e salame. Se è Natale, allora non potete perdervi la pizza di scarole, una focaccia al forno ripiena di scarola liscia, capperi, acciughe e olive nere.

Infine segnaliamo la pizza parigina: la trovate in qualsiasi rosticceria sormontata di pasta sfoglia e ripiena di pomodoro e prosciutto cotto. L’origine è imputata a un cuoco francese in servizio alla Reggia di Napoli che, incaricato di preparare una pizza rustica per la moglie di Ferdinando IV di Borbone, si inventò questa merenda. Devono avergli detto “è p’ a riggina”, per la regina: il nome sarà stato travisato, ma la ricetta è riuscita benissimo.